Procedura di mobilità chiusa col contratto di solidarietà: non c’è estorsione

Una recente sentenza della Cassazione ha escluso che il datore di lavoro sia perseguibile per il reato di estorsione a seguito della conclusione della procedura di mobilità con la stipulazione del contratto di solidarietà.

La procedura di mobilità nella crisi dell’impresa

Con il termine procedura di mobilità si indica una serie di misure previste dalla legge che hanno lo scopo di garantire un reddito e agevolare il reimpiego dei lavoratori che perdono il lavoro a seguito di licenziamento collettivo.

La procedura di mobilità viene avviata dall’imprenditore che, a causa di una crisi, non riesce a garantire l’impiego a tutti i propri dipendenti né a ricorrere a misure alternative. In particolare, la misura riguarda le imprese ammesse al trattamento di integrazione salariale straordinaria (anche chiamata cassa integrazione guadagni straordinaria), che hanno più di 15 dipendenti e intendono licenziarne almeno 5.

Se durante il programma di ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione il datore di lavoro verifica di non essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a procedure alternative, può avviare la procedura di mobilità per i lavoratori in esubero.

La procedura è prevista dalla Legge del 23 luglio 1991 n. 223 e riguarda i casi in cui il licenziamento collettivo sia disposto nell’arco di 120 giorni in conseguenza della cessazione, riduzione o trasformazione dell’attività o del lavoro.

Le imprese che attivano una procedura di mobilità sono tenute, anzitutto, a darne preventiva comunicazione, per iscritto:

  • alle rappresentanze sindacali aziendali,
  • alle rispettive associazioni di categoria,
  • in mancanza, alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

Successivamente alle comunicazioni, a richiesta delle rappresentanze sindacali e delle associazioni di categoria, si procede congiuntamente a valutare se e come è possibile un riassorbimento del personale anche attraverso contratti di solidarietà.

Le norme prevedono che l’apertura della procedura di mobilità impedisca i licenziamenti, così come a seguito della conclusione dell’accordo.

L’accordo o contratto di solidarietà

L’accordo o contratto di solidarietà, in estrema sintesi, è un ammortizzatore sociale che si può attuare in caso di crisi aziendale.

Consiste nella riduzione dell’orario di lavoro per tutti i lavoratori coinvolti, a cui consegue naturalmente una riduzione dello stipendio a carico del datore di lavoro, che viene in parte compensata dall’erogazione di un contributo da parte dell’INPS.

Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione è intervenuta in un caso di presunta estorsione ai danni di alcuni lavoratori da parte del datore di lavoro.

Il Tribunale di primo grado e la Corte d’Appello avevano, infatti, condannato un imprenditore per il reato di estorsione per aver costretto i suoi dipendenti, sotto la minaccia di licenziamento, ad aderire all’accordo di solidarietà.

L’accordo prevedeva la riduzione delle ore di lavoro, evitava i licenziamenti collettivi e chiudeva la procedura di mobilità che era stata attivata per far fronte alla crisi aziendale.

Questo accordo è stato interpretato da alcuni dipendenti come un’estorsione a loro danno, a causa dell’ingiusto vantaggio ottenuto dal datore di lavoro che, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbe indebitamente fruito dell’ammortizzatore sociale a fronte dello svolgimento da parte dei lavoratori della medesima prestazione, senza riduzioni orarie.

Il reato di estorsione e il caso affrontato dalla Cassazione

Il primo comma dell’articolo 629 del codice penale stabilisce che è punibile per estorsione: «Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno […]».

La Corte di Cassazione è intervenuta nel caso di presunta estorsione da parte del datore di lavoro ai danni di alcuni lavoratori, per averli costretti, a loro dire, sotto la minaccia di licenziamento, ad aderire all’accordo di solidarietà.

L’accordo prevedeva la riduzione del monte ore di lavoro, evitava i licenziamenti collettivi e chiudeva la procedura di mobilità, che era stata attivata dallo stesso datore di lavoro per far fronte alla crisi aziendale. Tuttavia i lavoratori lamentavano di essere stati costretti ad accettare condizioni contrattuali deteriori, continuando a prestare la propria attività lavorativa senza alcuna riduzione oraria.

Secondo il Tribunale e la Corte d’Appello, che hanno accolto la tesi dei lavoratori denuncianti, il datore di lavoro avrebbe costretto i dipendenti a sottoscrivere l’accordo di solidarietà, minacciandoli di licenziarli in caso di rifiuto e così conseguendo ingiustamente i benefici della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 23893 del 14 giugno 2024 ha accolto il ricorso del datore di lavoro.

La Corte, proprio partendo dall’esame delle sentenze di merito, ha escluso la sussistenza del reato di estorsione precisando che l’accordo di solidarietà conseguiva a un’iniziativa delle rappresentanze sindacali volta a evitare quei licenziamenti che il datore di lavoro, come era in suo diritto fare, aveva già intimato.

È contraddittorio affermare che è stata una scelta del datore di lavoro far sottoscrivere ai dipendenti l’accordo di solidarietà: il contratto di solidarietà è volto a evitare la riduzione del personale, quindi è incompatibile con l’esecuzione dell’iniziale e intimato intento di licenziamento posto alla base della procedura di mobilità.

La presunta richiesta di lavoro per un monte ore maggiore rispetto a quello previsto nell’accordo di solidarietà non è riconducibile al reato estorsivo in quanto non vi è alcuna prova che tale richiesta fosse contestuale o precedente alla sottoscrizione dell’accordo di solidarietà e che, quindi, potesse considerarsi oggetto di una preventiva programmazione.

Grazie all’intermediazione dei sindacati il datore di lavoro ha utilizzato uno strumento previsto dalla legge per evitare i licenziamenti.

Il provvedimento abnorme del GIP va cancellato

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 37751 del 15 ottobre 2024 fa chiarezza su una questione mai affrontata prima nell’ambito della applicazione del Decreto Legislativo n. 231/2001 che riguarda la responsabilità amministrativa da reato degli enti e delle persone giuridiche.

La procedura ex D. Lgs 231/01

La questione è strettamente procedurale e ha dato occasione alla Suprema Corte di affermare una serie di principi di diritto che regolano l’applicazione delle norme contenute nel D. Lgs. n. 231/2001.

La legge ha introdotto, per la prima volta in Italia, una forma di responsabilità per gli enti, tra cui rientrano le imprese e le società, che hanno tratto un vantaggio o un interesse da un reato commesso dai propri amministratori, dirigenti, dipendenti, collaboratori.

In sostanza le colpe dei singoli ricadono anche sulla società o ente, se non sono opportunamente adottate delle misure di prevenzione.

I processi di accertamento di queste responsabilità conseguono alle accuse di commissione di reati mosse nei confronti di persone che lavorano per l’ente o la società e in alcuni casi prevedono una forma più snella rispetto a quella ordinaria.

In particolare, il Pubblico Ministero, che rappresenta l’accusa, ha la facoltà e il potere di archiviare direttamente un procedimento avviato per illecito amministrativo che ritiene insussistente.

Questo potere è sottoposto solo al controllo gerarchico del procuratore generale.

Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione, i vertici di una cooperativa e il medico competente sono stati accusati da una dipendente per lesioni colpose a seguito di presunte violazioni delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Il Pubblico Ministero ha ritenuto che l’accusa fosse infondata e ha provveduto con un unico decreto a richiedere l’archiviazione del procedimento penale nei confronti delle persone fisiche indagate per lesioni colpose e ad archiviare la posizione della società cooperativa, provvedendo poi a trasmettere il decreto di archiviazione al Procuratore Generale della Corte di Appello, per quanto di sua competenza, limitatamente alla posizione della cooperativa, quale ente responsabile dell’illecito amministrativo da reato.

La persona offesa dal presunto reato si è opposta all’archiviazione e il Giudice, all’esito dell’udienza camerale, contrariamente a quanto richiesto dal Pubblico Ministero, ha disposto che la Procura non solo chiedesse il rinvio a giudizio dei vertici della cooperativa e del medico competente, ma anche che contestasse all’ente l’illecito amministrativo previsto dal D. Lgs 231/01.

La Cassazione ha giudicato abnorme il provvedimento del GIP

La Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato dalla cooperativa, e annullato l’ordinanza del G.I.P. per vizio di abnormità.

L’abnormità è un vizio di creazione giurisprudenziale che può aversi in due casi:

  • quando il provvedimento risulta estraneo all’ordinamento processuale per singolarità e stranezza;
  • quando il provvedimento non rientra nei casi consentiti e nelle ipotesi previste dal procedimento.

In altri casi la Cassazione aveva ritenuto che alcuni provvedimenti eccedevano i poteri del giudice e quindi fossero abnormi, per fare alcuni esempi: l’ordine di imputazione coatta nei confronti di persona non indagata o per un reato diverso da quello per cui era stata chiesta l’archiviazione o quello relativo ad una parte di condotta oggetto di procedimento già archiviato.

Pe la Cassazione in sostanza il G.I.P. ha oltrepassato i limiti dei propri poteri e invaso la sfera di autonomia del P.M.

L’autonomia del Pubblico Ministero deriva dall’articolo 58 del D. Lgs. 231/01, che gli consente di disporre direttamente l’archiviazione, senza che il Giudice delle Indagini Preliminari abbia il potere di revocarla.

Questo potere, detto in gergo di “cestinazione”, è soggetto solo al controllo gerarchico del Procuratore Generale presso la Corte di Appello, al quale il provvedimento va trasmesso.

La ragione di questo potere si trova esplicitata nella Relazione alla pubblicazione della legge, che giustifica l’adozione di un «procedimento semplificato, senza controllo del giudice» e partecipazione della parte offesa proprio in ragione della natura amministrativa della responsabilità dell’ente.

Donata Giorgia Cappelluto nuova presidente ANF

Donata Giorgia Cappelluto è la nuova presidente ANF – Associazione Nazionale Forense – eletta lo scorso 12 ottobre. L’avv. Cappelluto, già facente parte del Direttivo Nazionale, è stata nominata tramite procedure per l’elezione democratica degli organismi dirigenti, che si tengono ogni tre anni.

L’intervista del 24 Ore Professionale e ANF

Lo scorso 12 ottobre l’Associazione Nazionale Forense ha eletto come sua nuova Presidente per il prossimo triennio la collega Donata Giorgia Cappelluto, già membro del precedente Consiglio Direttivo, ed associata di ANF dal 1997. La nuova Presidente nel suo discorso da neo eletta ha tenuto a precisare che si metterà a disposizione dell’Associazione a rappresentanza di tutti i suoi membri con quello spirito di servizio che si può riassumere in “è il tempo di restituire tutto quanto ricevuto” nell’ottica di realizzare gli ambiziosi progetti ben delineati all’esito del recente Congresso tenuto in settembre a Parma. Con questa breve intervista cerchiamo di conoscere meglio il suo punto di vista sull’Associazione e, più in generale, sulla professione.

DOMANDA: La stagione politica che stiamo vivendo sta ponendo la professione di fronte a grandi sfide su temi cruciali quali le riforme della giustizia, l’Intelligenza Artificiale, un mercato delle professioni in continua evoluzione con un sempre maggiore timore che nel futuro la funzione di avvocato tenda ad assottigliarsi. L’impressione è che troppo spesso l’avvocatura venga tenuta ai margini nelle fasi decisionali su temi che invece dovrebbero coinvolgerla come protagonista. In questo scenario come pensa possa incidere una associazione come la nostra e quanto è importante il tema della partecipazione attiva dei colleghi?

CAPPELLUTO: Le ricorrenti riforme della giustizia degli ultimi dieci anni hanno riguardato per lo più il “rito” in ogni ambito del diritto processuale e, purtroppo, la direzione intrapresa dal legislatore pare orientata verso la fuga dalla giurisdizione in ragione delle performance richieste all’Italia dall’Europa e da ultimo persino imposte dagli obiettivi del PNRR, da una parte; dall’altra l’impiego dell’intelligenza artificiale, se non correttamente utilizzata, rischia di compromettere il ruolo sociale degli avvocati e il loro futuro professionale. In questo scenario credo che il ruolo della ns. Associazione sia quello di implementare la consapevolezza in ordine ai rischi concreti che questo scenario comporta per gli avvocati tutti, sia quello di accompagnarli nella formazione nell’acquisizione delle competenze necessarie per manovrare con cura tutti gli strumenti che l’I.A. ci può offrire nel rispetto degli irrinunciabili principi etici che pure devono essere osservati.

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Non c’è il reato di bancarotta fraudolenta anche se l’attività prosegue con nuova società

Una nuova sentenza della Corte di Cassazione esclude il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in un caso specifico: l’attività del fallito prosegue grazie a una nuova società condotta dalla moglie.

 

La bancarotta fraudolenta patrimoniale

La bancarotta fraudolenta è un reato fallimentare previsto dall’art. 322 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (già articolo 216 della legge fallimentare).

La legge definisce tre diverse fattispecie per questo reato:

  • bancarotta documentale che si verifica quando la condotta dell’imprenditore impedisce la ricostruzione contabile della reale situazione dell’impresa;
  • bancarotta patrimoniale che è contestata quando l’imprenditore ha utilizzato i fondi della società per scopi estranei all’attività di impresa (distrazione), oppure ha «occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni», oppure ancora ha esposto o riconosciuto passività inesistenti allo scopo di danneggiare i creditori della società fallita;
  • bancarotta preferenziale che si configura quando l’imprenditore fallito esegue pagamenti o simula titoli di prelazione al fine di favorire alcuni creditori ai danni di altri.

La bancarotta patrimoniale viene addebitata al fallito che prosegue la propria attività sotto altra forma se trasferisce illecitamente ad un’altra persona o entità fondi e rapporti giuridicamente ed economicamente valutabili dell’impresa originale.

Nel caso di cessione di ramo d’azienda, ad esempio, viene riconosciuta la “distrazione” dei beni aziendali quando il trasferimento ha ad oggetto l’azienda stessa, come definita dall’articolo 2555 del Codice civile.

Possono essere oggetti di distrazione anche:

  • l’avviamento commerciale dell’impresa;
  • la clientela, se sviata con l’ingiustificata cessione di contratti.

 

Una nuova sentenza della Cassazione sulla bancarotta patrimoniale

La Suprema Corte di Cassazione applica rigorosamente questi principi. Per questo motivo è giunta, con la recente sentenza n. 23577 del 12 giugno 2024, a escludere il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale nell’ipotesi che l’imprenditore continui la medesima attività di impresa con una società diversa amministrata dalla moglie, già socia della società fallita.

Nel caso che ha dato origine alla sentenza, i due coniugi imputati, un anno prima delle dimissioni del marito, avevano avviato un’attività commerciale concorrente alla prima, lasciata fallire perché indebitata.

La Corte di Cassazione precisa che questa condotta non è sufficiente -di per sé- a integrare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, perché non sono stati distratti beni strumentali, né merci della società fallita nè altri rapporti giuridici rilevanti.

La sentenza è particolarmente interessante per quello che afferma in tema di distrazione dell’avviamento che viene desunto dallo sviamento della clientela. La Corte infatti censura la decisione della Corte di Appello di Milano, che nella sentenza di condanna non ha individuato alcun rapporto con un solo cliente effettivamente proveniente dalla vecchia impresa, né ha indicato la prova del trasferimento di fattori di produzione.

La Cassazione ha quindi ritenuto che i coniugi non potessero essere condannati per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per l’assenza di questi requisiti.

Ha così annullato la sentenza di condanna in appello con riguardo alla bancarotta fraudolenta patrimoniale e rinviato alla Corte di secondo grado per un nuovo esame sulla scorta dei principi enunciati.

 

Avvocata Manuela Mulas

«La Riforma Nordio e la cultura delle regole» Donata Giorgia Cappelluto per 24 Ore Professionale e ANF

Pubblichiamo l’articolo dell’avvocato Donata Giorgia Cappelluto per la newsletter di aggiornamento realizzata da 24 Ore Professionale in collaborazione con Associazione Nazionale Forense dal titolo «La Riforma Nordio e la cultura delle regole».

La Riforma Nordio e la cultura delle regole

In data 10 agosto 2024 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale1 la legge n. 114 nota come Riforma Nordio della giustizia penale, di cui il decreto legge c.d. “carceri” del 4 luglio 2024 n. 922, convertito lo scorso 7 agosto 2024, costituisce il completamento.

Le modifiche al codice penale introdotte dall’art. 1 L.114/2024 hanno definitivamente depennato il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) dal nostro ordinamento e ridefinito il reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.); in entrambi i casi l’intervento del legislatore è destinato a deflazionare una percentuale del contenzioso penale davvero marginale atteso l’ambito di applicazione delle due norme in questione.

Trattasi di norme incriminatrici di chiusura dello “statuto” dei delitti contro la P.A., disciplinati nel libro II – titolo II del codice penale che si applicano in casi del tutto residuali in cui le condotte punibili, poste in essere contro la P.A., sfuggono alla casistica (tassativa) sussumibile nelle ipotesi di reato tradizionali e più gravi.

Come già osservato in sede di approvazione del disegno di legge Nordio3 , l’effetto reale di detto intervento normativo, almeno per quanto riguarda la prevista abrogazione del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) appare volto ad incontrare solo il favore della politica ed in particolare degli amministratori locali degli enti pubblici territoriali, soprattutto in vista dell’intensa azione amministrativa che si apprestano a realizzare in vista della messa a terra del P.N.R.R. entro giugno 2026.

Autorevoli commentatori in proposito hanno osservato in senso molto critico che “quando uno Stato abolisce i reati per fermare i pubblici ministeri, invece di riformare l’azione penale e di migliorare la formazione e la cultura dei magistrati, ha raggiunto un livello di crisi istituzionale […] inconfessabile”.

Invero, l’intervento in questione non appare neppure di pregio sul piano giuridico in quanto non in linea con la normativa euro-unitaria5, comportando il rischio di esporre il nostro Paese ad una procedura di infrazione; né appare in linea con le norme internazionali in tema di lotta alla corruzione che l’Italia è obbligata a rispettare6. Per detta ragione, quasi in dirittura di arrivo e melius re perpensa, con il c.d. decreto “carcere” n. 92/2024 è stato introdotto il nuovo reato di “peculato per distrazione” (art. 314 bis c.p.) appunto per controbilanciare, rectius neutralizzare, gli effetti negativi derivanti proprio dall’abrogazione del reato di abuso d’ufficio nella lotta al fenomeno diffuso, anche in Italia, della corruzione.

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Corte Costituzionale: il lavoratore va reintegrato

Con la sentenza n. 128 del 16 luglio 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione  del Jobs Act (art. 3, comma 2, del D.Lvo n. 23/2015) nella parte in cui non prevede la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato in un caso molto specifico.

Si tratta dell’ipotesi in cui il lavoratore sia stato licenziato per giustificato motivo oggettivo ma questo motivo sia basato su un  fatto mai accaduto e che questo venga dimostrato nel corso di un giudizio.

Illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto e ingiustificata diversità dei rimedi

La questione nasce al Tribunale di Ravenna, dove il Giudice del lavoro solleva una serie di questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto legislativo n. 23/2015 (Jobs Act).

Il Tribunale, nel corso della causa di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte del lavoratore, una volta appurato che il motivo del licenziamento era illegittimo, avrebbe dovuto applicare il primo comma di questa norma che non prevede la reintegrazione nel posto di lavoro ma solo il riconoscimento di una indennità.

Nella specifica ipotesi di insussistenza del fatto contestato, secondo il Tribunale il diverso trattamento previsto dalla norma tra i casi di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (primo comma) e illegittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa (secondo comma) avrebbe determinato una irragionevole diversità di tutela tra i lavoratori che subiscono un licenziamento illegittimo per la stesa grave ragione, poiché a fronte di una pari gravità del vizio, che rende le ipotesi di licenziamento identiche o quantomeno omogenee, dovrebbe necessariamente applicarsi un eguale trattamento sanzionatorio.

 

Non si può licenziare senza un motivo

Il diritto al lavoro è tutelato dagli artt. 4 primo comma e 35 primo comma della Costituzione e la legge n. 604 del 1966 prevede che il licenziamento possa avvenire solo per:

  • giusta causa cioè per una inadempienza del lavoratore «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto»;
  • per giustificato motivo, che può essere soggettivo o oggettivo

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo quando ci sono reali esigenze organizzative o produttive dell’azienda, che rendono necessario sopprimere il posto di lavoro e il datore di lavoro non ha la possibilità di ricollocare il lavoratore con mansioni diverse.

Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo può essere intimato quando il lavoratore tiene una condotta disciplinarmente rilevante.

Le conseguenze del licenziamento illegittimo

La reintegrazione è la tutela più efficace per contrastare i licenziamenti illegittimi, perché consente al dipendente di riprendere il suo posto di lavoro ma non è l’unica opzione di tutela prevista dal legislatore..

La legge n. 92/2012, tuttora applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ha differenziato la tutela del lavoratore in base alla gravità dell’illegittimità del licenziamento, prevedendo:

  • la reintegrazione in caso di:
  1. licenziamento nullo o discriminatorio (tutela reintegratoria “piena”);
  2. licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, fondati su un “fatto insussistente” (tutela reintegratoria “attenuata”);
  • una indennità, per compensare la perdita del posto di lavoro, In tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo.

Il decreto legislativo n. 23/ 2015 (Job Acts), applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ha ridotto l’applicazione dell’istituto della reintegrazione, prevedendola solo nei casi particolari di:

  • licenziamenti nulli, discriminatori o non intimati per iscritto (articolo 2);
  • licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, nei casi in cui sia accertata in giudizio l’inesistenza del fatto “materiale” contestato al lavoratore (articolo 3, secondo comma).

Resta quindi esclusa dal Job Acts la possibilità di  reintegrazione del dipendente se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia fondato su un fatto, allegato dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento, di cui viene provata l’inesistenza.

In questo caso il Giudice può solo dichiarare che il contratto di lavoro è risolto e riconoscere al lavoratore un’indennità, ma non può reintegrare il lavoratore al suo posto.

 

Incostituzionalità della norma del Jobs Act

In considerazione di questo caso di esclusione, la Corte costituzionale ha ritenuto che il secondo comma dell’articolo 3 del Job Acts contrasti con gli articoli 3, 4 e 35 della Costituzione.

Il fatto materiale addebitato al lavoratore deve esistere. Se viene dimostrato che non sussiste, il licenziamento è illegittimo perché senza causa, indipendentemente dalla qualificazione che il datore di lavoro abbia attribuito al fatto.

Questa disparità di trattamento con le altre ipotesi, secondo la Corte «apre una falla nella disciplina complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve avere un sufficiente grado di dissuasività delle ipotesi più gravi di licenziamento».

La tutela offerta dalla reintegrazione per i casi più gravi di licenziamento (nullo, discriminatorio, disciplinare, fondato su un fatto materiale insussistente) risulta indebolita dall’ipotesi mancante.

Il licenziamento motivato da un  fatto insussistente, che sia qualificato dal datore di lavoro come ragione d’impresa, è nella sostanza un licenziamento pretestuoso.

La pretestuosità può nascondere, quindi, una discriminazione che, se provata dal lavoratore, renderebbe applicabile la tutela reintegratoria piena, prevista dal Job Acts.

 

Tutela indennitaria in caso di violazione dell’obbligo di repêchage

Perché sia legittimo, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede, oltre alla sussistenza del fatto contestato, anche che il lavoratore non possa essere impiegato in altre mansioni. La violazione di quest’ultimo obbligo rende il licenziamento illegittimo ma comporta solo la tutela indennitaria prevista al primo comma dell’articolo 3, perché in questo caso il fatto sussiste ma il lavoratore poteva essere ricollocato in azienda con altri compiti.