Manuela Mulas e Valeriya Topolska relatrici al Convegno di Guareschi Group

Sabato 16 novembre, l’Avv. Manuela Mulas e l’Avv. Valeriya Topolska partecipano al Convegno «Il Pesce Nel Cuore Della Food Valley», organizzato da Guareschi Group, con il patrocinio del comune di Sala Baganza e dell’Ordine dei Medici Veterinari di Parma,  in occasione dei 50 anni di attività dell’azienda.

Il Convegno, che si tiene presso Rocca Sanvitale a Sala Baganza (PR), è moderato dall’avv. M. Mulas e vede la partecipazione dell’avv. V. Topolska come relatrice in tema di «Legislazione e Giurisprudenza: casi pratici» insieme all’avv. Stefano Catellani.

Programma Convegno «Il Pesce Nel Cuore Della Food Valley»

Inizio lavori ore 9:30 

  • Saluti istituzionali del Sindaco e presentazione di Claudio Guareschi intervistato da Lorenzo Fava – giornalista

Tavola rotonda ore 10:00- 12:30 – Moderano Lorenzo Fava e Manuela Mulas – socia fondatrice MC2 Legali S.t.a

  • Innovazione e ricerca nel settore ittico – Prof.ssa Maria Luisa Cortesi, già Ordinario di Ispezione degli alimenti di origine animale, Presidente Assoittica Italia
  • Vigilanza e controllo della Guardia Costiera sulle filiere della pesca – Capitano di Fregata Vittorio Giovannone  – Comandante II^ della Capitaneria di porto di La Spezia – Ispettore qualificato in ambito ICCAT (International Commission for the Conservation of Atlantic Tuna) ed E.F.C.A. (European Fishery Control Agency)
  • Controlli e verifiche nella ristorazione – Lgt. Gianfranco Sicilia in quiescienza – già in servizio al Nas Carabinieri di Parma
  • Legislazione e Giurisprudenza: casi pratici – Avv. Stefano Catellani – Phd in “Disciplina nazionale ed europea sulla produzione ed il controllo degli alimenti”. Avv. Valeriya Topolska  – Master universitario di I livello “Diritto e sicurezza agroalimentare” avvocata presso MC2 legali S.t.a. Parma.

12:30/ 13:30 – light lunch per i partecipanti alla tavola rotonda

14:00/ 15:00 – Show Cooking – Chef Andrea Poli

Evento accreditato presso l’ordine dei Medici Veterinari di Parma

Per la partecipazione alla tavola rotonda è gradita l’iscrizione al seguente indirizzo e-mail (fino ad esaurimento posti): segreteria@mc2legali.it

Non c’è il reato di bancarotta fraudolenta anche se l’attività prosegue con nuova società

Una nuova sentenza della Corte di Cassazione esclude il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in un caso specifico: l’attività del fallito prosegue grazie a una nuova società condotta dalla moglie.

 

La bancarotta fraudolenta patrimoniale

La bancarotta fraudolenta è un reato fallimentare previsto dall’art. 322 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (già articolo 216 della legge fallimentare).

La legge definisce tre diverse fattispecie per questo reato:

  • bancarotta documentale che si verifica quando la condotta dell’imprenditore impedisce la ricostruzione contabile della reale situazione dell’impresa;
  • bancarotta patrimoniale che è contestata quando l’imprenditore ha utilizzato i fondi della società per scopi estranei all’attività di impresa (distrazione), oppure ha «occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni», oppure ancora ha esposto o riconosciuto passività inesistenti allo scopo di danneggiare i creditori della società fallita;
  • bancarotta preferenziale che si configura quando l’imprenditore fallito esegue pagamenti o simula titoli di prelazione al fine di favorire alcuni creditori ai danni di altri.

La bancarotta patrimoniale viene addebitata al fallito che prosegue la propria attività sotto altra forma se trasferisce illecitamente ad un’altra persona o entità fondi e rapporti giuridicamente ed economicamente valutabili dell’impresa originale.

Nel caso di cessione di ramo d’azienda, ad esempio, viene riconosciuta la “distrazione” dei beni aziendali quando il trasferimento ha ad oggetto l’azienda stessa, come definita dall’articolo 2555 del Codice civile.

Possono essere oggetti di distrazione anche:

  • l’avviamento commerciale dell’impresa;
  • la clientela, se sviata con l’ingiustificata cessione di contratti.

 

Una nuova sentenza della Cassazione sulla bancarotta patrimoniale

La Suprema Corte di Cassazione applica rigorosamente questi principi. Per questo motivo è giunta, con la recente sentenza n. 23577 del 12 giugno 2024, a escludere il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale nell’ipotesi che l’imprenditore continui la medesima attività di impresa con una società diversa amministrata dalla moglie, già socia della società fallita.

Nel caso che ha dato origine alla sentenza, i due coniugi imputati, un anno prima delle dimissioni del marito, avevano avviato un’attività commerciale concorrente alla prima, lasciata fallire perché indebitata.

La Corte di Cassazione precisa che questa condotta non è sufficiente -di per sé- a integrare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, perché non sono stati distratti beni strumentali, né merci della società fallita nè altri rapporti giuridici rilevanti.

La sentenza è particolarmente interessante per quello che afferma in tema di distrazione dell’avviamento che viene desunto dallo sviamento della clientela. La Corte infatti censura la decisione della Corte di Appello di Milano, che nella sentenza di condanna non ha individuato alcun rapporto con un solo cliente effettivamente proveniente dalla vecchia impresa, né ha indicato la prova del trasferimento di fattori di produzione.

La Cassazione ha quindi ritenuto che i coniugi non potessero essere condannati per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per l’assenza di questi requisiti.

Ha così annullato la sentenza di condanna in appello con riguardo alla bancarotta fraudolenta patrimoniale e rinviato alla Corte di secondo grado per un nuovo esame sulla scorta dei principi enunciati.

 

Avvocata Manuela Mulas

«La Riforma Nordio e la cultura delle regole» Donata Giorgia Cappelluto per 24 Ore Professionale e ANF

Pubblichiamo l’articolo dell’avvocato Donata Giorgia Cappelluto per la newsletter di aggiornamento realizzata da 24 Ore Professionale in collaborazione con Associazione Nazionale Forense dal titolo «La Riforma Nordio e la cultura delle regole».

La Riforma Nordio e la cultura delle regole

In data 10 agosto 2024 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale1 la legge n. 114 nota come Riforma Nordio della giustizia penale, di cui il decreto legge c.d. “carceri” del 4 luglio 2024 n. 922, convertito lo scorso 7 agosto 2024, costituisce il completamento.

Le modifiche al codice penale introdotte dall’art. 1 L.114/2024 hanno definitivamente depennato il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) dal nostro ordinamento e ridefinito il reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.); in entrambi i casi l’intervento del legislatore è destinato a deflazionare una percentuale del contenzioso penale davvero marginale atteso l’ambito di applicazione delle due norme in questione.

Trattasi di norme incriminatrici di chiusura dello “statuto” dei delitti contro la P.A., disciplinati nel libro II – titolo II del codice penale che si applicano in casi del tutto residuali in cui le condotte punibili, poste in essere contro la P.A., sfuggono alla casistica (tassativa) sussumibile nelle ipotesi di reato tradizionali e più gravi.

Come già osservato in sede di approvazione del disegno di legge Nordio3 , l’effetto reale di detto intervento normativo, almeno per quanto riguarda la prevista abrogazione del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) appare volto ad incontrare solo il favore della politica ed in particolare degli amministratori locali degli enti pubblici territoriali, soprattutto in vista dell’intensa azione amministrativa che si apprestano a realizzare in vista della messa a terra del P.N.R.R. entro giugno 2026.

Autorevoli commentatori in proposito hanno osservato in senso molto critico che “quando uno Stato abolisce i reati per fermare i pubblici ministeri, invece di riformare l’azione penale e di migliorare la formazione e la cultura dei magistrati, ha raggiunto un livello di crisi istituzionale […] inconfessabile”.

Invero, l’intervento in questione non appare neppure di pregio sul piano giuridico in quanto non in linea con la normativa euro-unitaria5, comportando il rischio di esporre il nostro Paese ad una procedura di infrazione; né appare in linea con le norme internazionali in tema di lotta alla corruzione che l’Italia è obbligata a rispettare6. Per detta ragione, quasi in dirittura di arrivo e melius re perpensa, con il c.d. decreto “carcere” n. 92/2024 è stato introdotto il nuovo reato di “peculato per distrazione” (art. 314 bis c.p.) appunto per controbilanciare, rectius neutralizzare, gli effetti negativi derivanti proprio dall’abrogazione del reato di abuso d’ufficio nella lotta al fenomeno diffuso, anche in Italia, della corruzione.

Leggi l’articolo integrale.

Corte Costituzionale: il lavoratore va reintegrato

Con la sentenza n. 128 del 16 luglio 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione  del Jobs Act (art. 3, comma 2, del D.Lvo n. 23/2015) nella parte in cui non prevede la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato in un caso molto specifico.

Si tratta dell’ipotesi in cui il lavoratore sia stato licenziato per giustificato motivo oggettivo ma questo motivo sia basato su un  fatto mai accaduto e che questo venga dimostrato nel corso di un giudizio.

Illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto e ingiustificata diversità dei rimedi

La questione nasce al Tribunale di Ravenna, dove il Giudice del lavoro solleva una serie di questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto legislativo n. 23/2015 (Jobs Act).

Il Tribunale, nel corso della causa di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte del lavoratore, una volta appurato che il motivo del licenziamento era illegittimo, avrebbe dovuto applicare il primo comma di questa norma che non prevede la reintegrazione nel posto di lavoro ma solo il riconoscimento di una indennità.

Nella specifica ipotesi di insussistenza del fatto contestato, secondo il Tribunale il diverso trattamento previsto dalla norma tra i casi di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (primo comma) e illegittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa (secondo comma) avrebbe determinato una irragionevole diversità di tutela tra i lavoratori che subiscono un licenziamento illegittimo per la stesa grave ragione, poiché a fronte di una pari gravità del vizio, che rende le ipotesi di licenziamento identiche o quantomeno omogenee, dovrebbe necessariamente applicarsi un eguale trattamento sanzionatorio.

 

Non si può licenziare senza un motivo

Il diritto al lavoro è tutelato dagli artt. 4 primo comma e 35 primo comma della Costituzione e la legge n. 604 del 1966 prevede che il licenziamento possa avvenire solo per:

  • giusta causa cioè per una inadempienza del lavoratore «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto»;
  • per giustificato motivo, che può essere soggettivo o oggettivo

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo quando ci sono reali esigenze organizzative o produttive dell’azienda, che rendono necessario sopprimere il posto di lavoro e il datore di lavoro non ha la possibilità di ricollocare il lavoratore con mansioni diverse.

Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo può essere intimato quando il lavoratore tiene una condotta disciplinarmente rilevante.

Le conseguenze del licenziamento illegittimo

La reintegrazione è la tutela più efficace per contrastare i licenziamenti illegittimi, perché consente al dipendente di riprendere il suo posto di lavoro ma non è l’unica opzione di tutela prevista dal legislatore..

La legge n. 92/2012, tuttora applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ha differenziato la tutela del lavoratore in base alla gravità dell’illegittimità del licenziamento, prevedendo:

  • la reintegrazione in caso di:
  1. licenziamento nullo o discriminatorio (tutela reintegratoria “piena”);
  2. licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, fondati su un “fatto insussistente” (tutela reintegratoria “attenuata”);
  • una indennità, per compensare la perdita del posto di lavoro, In tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo.

Il decreto legislativo n. 23/ 2015 (Job Acts), applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ha ridotto l’applicazione dell’istituto della reintegrazione, prevedendola solo nei casi particolari di:

  • licenziamenti nulli, discriminatori o non intimati per iscritto (articolo 2);
  • licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, nei casi in cui sia accertata in giudizio l’inesistenza del fatto “materiale” contestato al lavoratore (articolo 3, secondo comma).

Resta quindi esclusa dal Job Acts la possibilità di  reintegrazione del dipendente se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia fondato su un fatto, allegato dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento, di cui viene provata l’inesistenza.

In questo caso il Giudice può solo dichiarare che il contratto di lavoro è risolto e riconoscere al lavoratore un’indennità, ma non può reintegrare il lavoratore al suo posto.

 

Incostituzionalità della norma del Jobs Act

In considerazione di questo caso di esclusione, la Corte costituzionale ha ritenuto che il secondo comma dell’articolo 3 del Job Acts contrasti con gli articoli 3, 4 e 35 della Costituzione.

Il fatto materiale addebitato al lavoratore deve esistere. Se viene dimostrato che non sussiste, il licenziamento è illegittimo perché senza causa, indipendentemente dalla qualificazione che il datore di lavoro abbia attribuito al fatto.

Questa disparità di trattamento con le altre ipotesi, secondo la Corte «apre una falla nella disciplina complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve avere un sufficiente grado di dissuasività delle ipotesi più gravi di licenziamento».

La tutela offerta dalla reintegrazione per i casi più gravi di licenziamento (nullo, discriminatorio, disciplinare, fondato su un fatto materiale insussistente) risulta indebolita dall’ipotesi mancante.

Il licenziamento motivato da un  fatto insussistente, che sia qualificato dal datore di lavoro come ragione d’impresa, è nella sostanza un licenziamento pretestuoso.

La pretestuosità può nascondere, quindi, una discriminazione che, se provata dal lavoratore, renderebbe applicabile la tutela reintegratoria piena, prevista dal Job Acts.

 

Tutela indennitaria in caso di violazione dell’obbligo di repêchage

Perché sia legittimo, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede, oltre alla sussistenza del fatto contestato, anche che il lavoratore non possa essere impiegato in altre mansioni. La violazione di quest’ultimo obbligo rende il licenziamento illegittimo ma comporta solo la tutela indennitaria prevista al primo comma dell’articolo 3, perché in questo caso il fatto sussiste ma il lavoratore poteva essere ricollocato in azienda con altri compiti.

 

La pena alternativa al carcere per chi commette bancarotta fraudolenta 

La Corte di Cassazione si è pronunciata, con la sentenza n. 23004 del 7 giugno 2024 , sulla possibilità di ammettere alla pena dell’affidamento in prova ai servizi sociali, come alternativa alla detenzione, un imputato condannato per il reato di bancarotta fraudolenta. 

 

La pena detentiva e le misure alternative per chi commette bancarotta 

Nel caso affrontato dalla Cassazione, il Tribunale di sorveglianza aveva applicato la pena della detenzione domiciliare, in alternativa alla detenzione in carcere, alla persona giudicata colpevole di bancarotta fraudolenta. 

Lo stesso Tribunale aveva negato invece l’affidamento in prova al servizio sociale, che il condannato aveva richiesto, per la ragione che non aveva risarcito in alcun modo il danno derivante dalla commissione del reato. 

Il condannato proponeva ricorso per Cassazione lamentando la mancata valutazione dal parte del Tribunale di sorveglianza degli elementi a suo favore, tra i quali la sua capacità patrimoniale e la disponibilità a risarcire, per quanto possibile, la procedura fallimentare. 

La Suprema Corte ha accolto la richiesta e ha dichiarato che può essere ammesso all’affidamento in prova ai servizi sociali colui che sia stato condannato per bancarotta fraudolenta anche se non ha risarcito la procedura fallimentare del danno causato dalla commissione del reato.  

 

La misura alternativa alla detenzione: l’affidamento in prova ai servizi sociali 

La bancarotta fraudolenta è un reato che, in passato, presupponeva la dichiarazione di fallimento. Oggi è disciplinato dal Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza e non più dalla legge fallimentare. 

La bancarotta fraudolenta può essere commessa dall’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale o da altre figure che hanno ruoli diversi e specifici all’interno della società in crisi, in quest’ultimo caso si parla di bancarotta “impropria”. 

Per entrambi i reati in caso di condanna sono previste misure alternative al carcere: 

  • la semilibertà; 
  • la detenzione domiciliare; 
  • l’affidamento in prova ai servizi sociali. 

Quest’ultima misura consente al condannato di espiare la pena fuori dal carcere, sotto la vigilanza dei servizi sociali che lo aiutano a superare le difficoltà del reinserimento nella società e verificano che rispetti le prescrizioni del Tribunale in ordine alla sua vita fuori dal carcere. 

L’affidamento in prova può essere concesso se, in base a quanto osservato della personalità del condannato, si può ritenere che possa contribuire alla sua rieducazione ed eviti il pericolo che commetta altri reati.  

Se la prova ha esito positivo, la pena si estingue, così come ogni altro effetto della condanna. 

 

 Il “giudizio prognostico” sull’esito dell’affidamento in prova nella bancarotta fraudolenta 

La Cassazione, nella sentenza citata, ribadisce che il giudice deve dimostrare, nella motivazione del provvedimento, di aver considerato tutti gli elementi, previsti dalla legge, che giustifichino la propria decisione di applicare o meno la misura alternativa richiesta.  

Se è accertata una rilevante tendenza a commettere reati, ad esempio perché il condannato ha numerosi precedenti penali e pendenze giudiziarie, è giustificato il giudizio “prognostico” negativo sulle probabilità di successo della misura alternativa.  

Per prevedere che la prova abbia esito favorevole e non vi sia pericolo che il condannato commetta altri reati, non è infatti sufficiente che manchino elementi negativi, ma sarà necessaria la presenza di elementi positivi che corroborino l’applicazione dell’affidamento ai servizi sociali.  

Il risarcimento dei danni in sé non è una condizione per concedere o negare l’affidamento in prova ai servizi sociali; il Tribunale può legittimamente valutare l’ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima ma non può respingere la concessione del beneficio in parola deducendo l’assenza di segni di ravvedimento esclusivamente dal mancato risarcimento.  

Nel caso in esame la Corte di Cassazione ha ritenuto che il Tribunale di sorveglianza non abbia correttamente considerato tutti gli elementi disponibili, tra cui la documentazione da cui emergeva la disponibilità del condannato a risarcire, anche parzialmente, la procedura fallimentare. 

MC2 Legali società cooperativa intervistata da Il Sole 24 Ore

Pubblicata lunedì 3 giugno, sulle pagine del quotidiano economico e giuridico Il Sole 24 Ore, l’articolo, frutto di una intervista, che  il giornalista Massimiliano Carbonaro ha proposto a Manuela Mulas, presidente dello studio  MC2 Legali.

L’intervista realizzata a più voci, affronta le ragioni che hanno indotto quattro studi legali, diversi per dimensione e collocazione geografica, ad adottare la forma organizzativa della società tra avvocati come cooperativa a responsabilità limitata.

Il titolo «Pochi gli studi in cooperativa: piace la formula senza vertici» evidenzia subito il carattere paritario e collettivo della forma associativa, ancora poco diffusa, ma che offre notevoli elementi di novità e utilità per gli studi, prima tra tutti la possibilità di contrattualizzare il rapporto tra i soci (gli avvocati), e la società nella forma del socio lavoratore. Un altro evidente vantaggio della forma associativa coop è quello di facilitare l’ingresso di nuovi soci, spesso collaboratori che già lavorano per lo studio a partita IVA senza polverizzare il capitale sociale o indebolire la governance.

La forma associativa della sta cooperativa a r.l.

La legge professionale forense 247 del 2012, riletta anche alla luce della legge sulla concorrenza (124/2017), permette agli avvocati di organizzarsi anche in società di capitali.

Tra queste, naturalmente, stanno le cooperative, i cui soci devono essere, per almeno due terzi rappresentati da avvocati.

L’articolo mette a confronto quattro esperienze, di cui una di Bari, una di Como, una di Roma e quella fondata dalle avvocate Manuela Mulas, Lauravita Cappelluto e Donata Giorgia Cappelluto. 

«Lo studio parmense MC2 Legali, infine, ritiene che per una realtà di provincia, in una fase che premia l’aggregazione, la cooperativa sia la risposta, ma il punto di partenza è stato un rapporto consolidato da più di 20 anni. «Noi pensiamo – sottolinea l’avvocato Manuela Mulas, una delle tre socie fondatrici – che l’avvocato singolo sia destinato a scomparire e che questa formula sia l’unica che garantisca continuità, e fa entrare soci più giovani con facilità»

Scarica e leggi l’intervista integrale in pdf.

Bando per il rafforzamento e l’aggregazione delle attività libero professionali Azione 1.3.1 PR FESR 2021-2027

Innovazione digitale dei processi per la crescita competitiva e lo sviluppo aggregativo di MC2 LEGALI

MC2 LEGALI ha innovato la gestione organizzativa e i servizi offerti. Si è impegnata a implementare una nuova infrastruttura IT, funzionale per allineare gli strumenti e le procedure alla riforma telematica dei processi e delle udienze in corso. L’obiettivo era valorizzare la leva digitale per garantire una crescita competitiva all’attività libero professionale offerta. La cosiddetta “Riforma Cartabia” aveva introdotto una serie di norme volte a realizzare la transizione digitale e telematica del processo civile e penale, con significative innovazioni in tema di formazione, deposito, notificazione e comunicazione degli atti, nonché in materia di registrazioni audiovisive e partecipazione a distanza ad alcuni atti del procedimento o all’udienza. La digitalizzazione della giustizia civile e penale e lo sviluppo del processo telematico rappresentavano dunque dinamiche strategiche a livello programmatico e leva di sviluppo competitivo per i professionisti che sarebbero stati in grado di intercettare e valorizzare il cambiamento in atto

Nuove regole per gli affitti brevi

di Lauravita Cappelluto

Le locazioni ad uso abitativo per finalità turistiche, meglio conosciute come affitti brevi, vengono additate spesso come uno dei problemi alla base della deregulation del turismo e dell’aumento dei costi degli affitti delle case.

Restano, però il modo più semplice e rapido per mettere a reddito un immobile perché non sono soggette alla marea di di regole nazionali, regionali, provinciali e comunali che regolano le strutture ricettive ed extralberghiere.

Forse non tutti ricordano che gli affitti brevi sono stati introdotti da una norma fiscale, l’art. 4 D.L. n. 50/2017, che li definisce contratti di locazione di immobili ad uso abitativo destinati alla locazione a uso turistico inferiore ai 30 giorni, stipulati da persone fisiche. La definizione può riguardare:

  • appartamenti;
  • case;
  • singole stanze.

Rientrano nella categoria affitti brevi anche i contratti che prevedono, oltre all’utilizzo dell’immobile, anche servizi di fornitura di biancheria e di pulizia dei locali.

 

Le agevolazioni normative per gli affitti brevi e le novità

L’agevolazione normativa di cui godono gli affitti brevi deriva dall’art. 53 del Codice del Turismo che stabilisce espressamene che «gli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche, in qualsiasi luogo ubicati, sono regolati dalle disposizioni del codice civile in tema di locazione».

Sempre più pesso i proprietari o possessori degli immobili per proporsi al pubblico scelgono di rivolgersi a property manager o a piattaforme internet (ad es. Airbnb o Booking) che, oltre a pubblicizzare l’immobile e la destinazione, contando su una politica molto aggressiva di indicizzazione dei propri siti, stendono i contratti e gestiscono i pagamenti in forma elettronica e tracciabile. Quest’ultimo meccanismo rende molto difficile la pratica, prima molto diffusa, dell’evasione delle tasse sui redditi da locazione.

Tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024, su impulso del Governo, sono state introdotte nuove norme per rendere più trasparente il mercato delle locazioni turistiche brevi e per contrastare le ricadute di concorrenza sleale con il settore turistico alberghiero, che è sottoposto a regole molto severe e stringenti.

L’obiettivo del Governo è duplice: da un lato, si mira a incrementare le entrate fiscali derivanti da questo settore in rapida espansione e, dall’altro, a disciplinare in modo più efficace la situazione degli affitti turistici, spesso caratterizzati da dinamiche non regolamentate.

Un impulso all’introduzione delle nuove norme è certamente derivato dal contenzioso tributario tra il colosso degli intermediari per le locazioni brevi Airbnb e l’Agenzia delle Entrate. Infatti, Airbnb ha perso un ricorso, in entrambi i gradi di giudizio, contro un provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che contestava:

  • il mancato versamento di ritenute;
  • la mancata effettuazione delle ritenute;
  • la mancata emissione delle certificazioni uniche.

Alla causa è seguito un sequestro di ingenti somme e la vertenza si è conclusa con un accordo in base al quale la piattaforma ha versato al fisco italiano ben 576 milioni di euro in relazione agli anni fiscali dal 2017 al 2021, senza ricadute per gli host (proprietari che danno ospitalità).

Le novità più significative sono state introdotte con l’art. 13 ter del cd. Decreto Anticipi (D.L. n. 145/2023 entrato in vigore il 19/10/2023 e convertito con modifiche in Legge 191/2023 in vigore dal 17/12/2023).

Le novità riguardano:

  • l’istituzione di un Codice Identificativo Nazionale (CIN);
  • la previsione della procedura di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) per gli affitti brevi in forma imprenditoriale;
  • l’introduzione di nuovi obblighi di sicurezza;
  • l’introduzione di un regime sanzionatorio ad hoc;

Non sono ovviamente mancate le novità in materia fiscale, infatti l’art. 1 comma 63 legge di Bilancio 2024 (L. n. 213/2023 in vigore dall’1/01/2024) ha innalzata la tassazione per chi opta per la cedolare secca.

 

L’istituzione del CIN

Con la conversione del decreto nella legge citata è stata definitivamente istituito il Codice Identificativo Nazionale (Cin). Questo codice viene assegnato dal Ministero del Turismo alle unità immobiliari destinate alla locazione per fini turistici, alle unità destinate alle locazioni brevi e alle strutture turistico-ricettive alberghiere ed extralberghiere.

La procedura per l’iscrizione al CIN è automatizzata e gestita dal Ministero che sarà anche responsabile della gestione del relativo database nazionale. Una volta assegnato il CIN deve essere obbligatoriamente esposto all’esterno dello stabile in cui è collocata l’unità immobiliare o la struttura ricettiva e indicato in ogni annuncio ovunque pubblicato e comunicato.

La nuova normativa intende garantire la tutela della concorrenza e della trasparenza del mercato; il coordinamento delle informazioni, delle statistiche e dei dati informatici tra l’amministrazione statale, regionale e locale e la sicurezza del territorio e il contrasto alle pratiche irregolari nell’ospitalità e, soprattutto, all’evasione fiscale. Infatti, la mancanza del CIN espone il locatore a un maggior rischio di essere assoggettato ai controlli antievasione a cura dell’Agenzia delle Entrate d’intesa con la Guardia di Finanza.

La procedura di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)

Chi esercita l’attività di locazione per finalità turistiche in forma imprenditoriale, direttamente o tramite intermediario, è soggetto all’obbligo di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) presso lo sportello unico delle attività produttive (SUAP) del comune del territorio in cui è svolta l’attività.

 

Nuovi obblighi di sicurezza per gli affitti brevi

Le unità immobiliari a uso abitativo oggetto di locazione per finalità turistiche, gestiste nelle forme imprenditoriali (gestione di un numero di unità immobiliari superiore a 4), devono rispettare gli standard di sicurezza degli impianti definiti dalla normativa statale e regionale vigente.

In ogni caso, quindi anche nelle ipotesi di affitti brevi gestiti in modo occasionale (fino a 4 unità immobiliari), l’immobile deve essere dotato di dispositivi per il rilevamento di gas combustibili e del monossido di carbonio funzionanti, nonché di estintori portatili (uno ogni 200 metri quadrati)

 

L’inasprimento delle sanzioni

I nuovi obblighi portano con sé specifiche sanzioni pecuniarie:

  • per la mancanza di CIN la sanzione va da € 800,00 a € 8.000,00, in relazione alle dimensioni della struttura o dell’immobile;
  • per la mancata esposizione del CIN la sanzione va da € 500,00 a € 5.000,00, in relazione alle dimensioni della struttura o dell’immobile, per ogni struttura o unità immobiliare in cui viene riscontrata la violazione. La stessa sanzione pecuniaria, accompagnata dalla rimozione immediata dell’annuncio irregolare pubblicato, è applicata in caso di mancata indicazione del CIN negli annunci;
  • per la mancata presentazione della SCIA la sanzione pecuniaria che va da 2.000 a 10.000 euro, in relazione alle dimensioni della struttura o dell’immobile;
  • in caso di esercizio in forma imprenditoriale dell’attività di locazione di unità immobiliari a uso abitatitavo prive dei requisiti di sicurezza prescritti dalla normativa statale e regionale vigente si applicano le sanzion previste dalla relativa normativa statale o regionale;
  • in caso di assenza di dispositivi di rilevazione di gas combustibili e del monossido di carbonio funzionanti e di estintori la sanzione va da € 600,00 a € 6.000,00 per ciascuna violazione accertata.

Il regime di sanzioni sopra dettagliato non trova applicazione se il fatto è già sanzionato dalla normativa regionale.

I controlli, le verifiche e l’applicazione delle sanzioni amministrative sono attribuiti al comune in cui si trova la struttura turistica-ricettiva o l’unità immobiliare locata, tramite gli organi di di polizia locale.

 

Novità fiscali e cedolare secca per gli affitti brevi

Con la Legge di Bilancio 2024 il Governo ha voluto introdurre una serie di misure per regolamentare e tassare maggiormente il settore degli affitti brevi. La principale novità è senza ombra di dubbio l’aumento dell’aliquota fiscale per la cedolare secca.

La cedolare secca prevede una tassazione in misura forfettaria. Ne può usufruire solo chi esercita l’attività di locazione di immobili a uso abitativo per finalità turistiche in forma occasionale e quindi chi gestisce fino a un massimo di quattro immobili.

Dal 1/01/2024 l’aliquota è passata dal 21% al 26% per i redditi derivanti da affitti brevi di più di un immobile per periodo di imposta; l’aliquota è rimasta al 21% per chi affitta una sola unità abitativa.

Va da sé che chi esercità l’attività di locazione turistica per periodi brevi in forma imprenditoriale non può optare per la cedolare secca ma è sottoposto al regime ordinario e la misura della tassazione dipende dallo scaglione di reddito IRPEF nel quale si è ricompresi.

Donata Giorgia Cappelluto alla tavola rotonda di Ravenna sulle disparità di genere

Affrontare le disparità di genere
strategie e soluzioni per l’uguaglianza nelle professioni giuridiche
Ravenna, 18 marzo 2024 ore 15,00
Sala convegni Autorità Portuale Ravenna

L’avvocata Donata Giorgia Cappelluto, socia fondatrice di MC2 Legali s.t.a. coop a r.l., è invitata a portare la sua testimonianza come «case history» di successo, alla tavola rotonda promossa e organizzata dal Consiglio dell’Ordine delle Avvocate e degli Avvocati di Ravenna, Comitato per le Pari Opportunità e dalla Fondazione Forense Ravennate.

 

Programma dell’evento

Ore 15,00 Saluti
Daniele Rossi, Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico centro settentrionale (AdSP);
Mauro Brighi – avvocato, Direttore Fondazione Forense Ravennate ;
Sonia Lama – avvocata, Presidente C.P.O. presso il Consiglio dell’Ordine di Ravenna.

Coordinamento di  Cristina Federici e Mara Ossani, componenti del Comitato Pari Opportunità.

Interventi:

  • dott.ssa Sonia Alvisi, Consigliera Regionale di Parità dell’Emilia Romagna;
  • avv. Laura Massaro, Delegata Organismo Congressuale Forense;
  • avv. Paola Carpi, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Ravenna;
  • avv. Viola Bravi, Presidente AIGA, sez. Ravenna
  • avv. Paola Parigi, consulente marketing e comunicazione
  • avv. Donata Giorgia Cappelluto Foro di Parma, socia fondatrice della cooperativa tra avvocate MC2 legali – testimonial e «case history»

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Ravenna ha riconosciuto all’evento 3 crediti di cui 1 in materia obbligatoria validi per la formazione forense.

Il gender gap nelle professioni legali rappresenta una sfida persistente e diffusa anche nel nostro Paese. Nonostante i progressi compiuti verso l’uguaglianza di genere e la progressiva femminilizzazione delle professioni di giudice e avvocato, le donne sono ancora sottorappresentate nelle posizioni di leadership degli studi e soprattutto faticano a conciliare i ritmi della vita personale con quelli dell’impegno professionale.

Le ragioni sono molte:

  • stereotipi di genere profondamente radicati;
  • mancanza di supporto specifico per le donne nella crescita professionale;
  • discriminazione implicita e esplicita;
  • difficoltà nel conciliare carriera e vita familiare.

Affrontare la disparità di genere nelle professioni legali richiede sforzi concertati da parte delle istituzioni, delle organizzazioni professionali e della società nel suo insieme.

Il modello cooperativo rappresenta certamente un primo passo verso la creazione di nuove forme organizzative del lavoro delle professioniste legali che solo attraverso un maggiore coinvolgimento nelle scelte dello Studio potranno superare il gap di genere.

Donata Giorgia Cappelluto firma un articolo sul periodico dell’Associazione Nazionale Forense

È già l’ora della RIFORMA della “Riforma Cartabia!

Donata Giorgia Cappelluto

 

 

 

di Donata Giorgia Cappelluto

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Ad un anno di distanza dall’entrata in vigore della Riforma Cartabia nel processo penale è forse giunta l’ora di formulare alcune riflessioni all’esito delle prime interpretazioni ed applicazioni delle nuove norme introdotte nel codice di rito con il d.lgs. 150/2022 (in attuazione della legge delega n. 134/2021).

Come noto, la Riforma in questione è stata varata dal legislatore italiano in quanto funzionale ad evadere gli obiettivi di efficienza e competitività del “sistema giustizia” concordati dall’Italia durante il Governo Conte 1 per l’attuazione del PNRR.

In particolare, l’agenda legale prevista dal PNRR prevede la concessione al nostro paese di ingenti investimenti programmati a condizione che lo Stato italiano sia in grado di perseguire, entro l’anno 2026, i seguenti risultati:

  • riduzione del tempo di durata del giudizio
  • abbattimento dell’arretrato giurisdizionale
  • digitalizzazione del processo
  • riqualificazione del patrimonio immobiliare giudiziario.

A tal fine l’entrata in vigore della Riforma Cartabia (d.lgs. 150/2022), per intuibili ragioni efficientistiche ed in attuazione della legge delega (n. 134/2021), si prefigge di realizzare, in linea con gli obiettivi concordati:

  • la deflazione dei tempi del processo penale del 25% entro il 2026
  • la salvaguardia dei diritti delle parti
  • il rafforzamento delle garanzie del giusto processo
  • il soddisfacimento delle esigenze di efficienza ed efficacia dell’accertamento processuale.

Da tale premessa ne deriva che le modifiche attuate dalla Riforma – di fatto – riguardano l’intero processo penale, ivi compresa la fase (eventuale) dell’esecuzione penale.

All’esito di un primo bilancio emerge che sono stati introdotti numerosi e nuovi istituti, certamente di pregio, quali ad esempio i rimedi giurisdizionali all’eventuale stasi del procedimento penale in caso di inerzia del p.m., istituti di incentivazione all’accesso ai procedimenti alternativi secondo un modello del processo penale a c.d. “a trazione anteriore”, una inedita disciplina organica in tema di giustizia riparativa in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato accessibile sempre (prima, in pendenza e dopo il processo durante la fase dell’esecuzione penale).

La riforma, in attuazione della doverosa transizione digitale e telematica del processo, introduce poi a tal fine norme specifiche in tema di formazione, deposito, notificazione e comunicazione degli atti, e in materia di registrazioni audiovisive e partecipazione a distanza ad alcuni atti del procedimento o all’udienza.

Da ultimo essa interviene in modo decisamente apprezzabile sul sistema sanzionatorio penale ampliando il novero delle sanzioni possibili, con particolare riguardo a quelle sostitutive, con l’intento di rendere la loro esecuzione più certa, effettiva e tempestiva rispetto alla data di formazione del giudicato penale; da cui potrà derivare, nel lungo periodo, anche una rinnovata ed ampliata funzione general-preventiva della pena.

Uguale apprezzamento si può esprimere anche in relazione alle nuove norme introdotte in materia di recupero “coattivo” delle pene pecuniarie, in relazione alle quale le percentuali di recupero da parte del bilancio Statale erano veramente irrisorie pari mediamente al 4,2% e oggetto di censura specifica da parte della Corte dei Conti nel 2017.

Un disegno non unitario del legislatore In sintesi gli interventi, segnalati pur di pregio da parte della scrivente, rivelano il disegno del legislatore non unitario di:

  • da un lato, voler aumentare l’efficienza del “sistema della giustizia penale” anche in chiave moderna, secondo la nuova cultura informatica, che esige un’imponente ed efficace opera di dematerializzazione degli atti penali del processo per aumentare sia gli standards di efficienza e sia per favorire in prospettiva l’applicazione dell’intelligenza artificiale anche al settore della giustizia penale;
  • dall’altro, purtroppo, rivela che il raggiungimento delle performances, richieste dall’agenda europea all’Italia, si è deciso di perseguirlo anche a scapito della protezione dei diritti fondamentali e delle garanzie del giusto processo previste dall’art. 111 Cost. In proposito non è possibile sottacere che la Riforma Cartabia, in nome dell’asserita efficienza in concreto perseguita, ha inteso ridurre i tempi del processo penale ad ogni costo “a prescindere dai mezzi impiegati”.

Pertanto, in un’ottica di compromesso, la Riforma si contraddistingue anche per alcuni punti “molto deboli”, che tradiscono l’obiettivo, invece asserito, di voler rafforzare le garanzie difensive in coerenza con le regole del giusto processo.

L’introduzione della nuova regola di giudizio, per scrutinare l’esercizio dell’azione penale ai fini del rinvio a giudizio e/o archiviazione, secondo la nuova formula della “ragionevole previsione di condanna”, disciplinata dagli artt. 408 comma 1 c.p.p., artt. 425 c.p.p. e art. 554 ter c.p.p., in base alla fase processuale, individua un nuovo criterio valutativo per vagliare – appunto in via preliminare – se la piattaforma probatoria acquisita in pendenza delle indagini, dalla P.G. o dal P.M., deponga o meno a favore della probabilità che il processo si concluderà con la condanna dell’incolpato . Non può che trattarsi di un giudizio prognostico ex ante, invero assai discutibile, in quanto fondato e formulato sulla scorta di prova/e, non ancora effettivamente raggiunta/e, nella convinzione che ciò si raggiungerà all’esito del giudizio).

Ciò premesso ne deriva che una previsione normativa di tal fatta, c.d. regola di giudizio “di tipo dinamico”, rischia di prestare il fianco ad operazioni interpretative molto discrezionali e di dubbia legalità sotto il profilo del principio di uguaglianza, prestandosi a possibili disparità di trattamento degli incolpati. In sintesi, la nuova regola “per filtrare a ribasso” il numero dei procedimenti che approderà alla fase dibattimentale, finisce per attribuire lo stigma sociale derivante dalla sentenza penale di condanna sulla base di indagini, acquisite in modo unilaterale dall’Ufficio (PM e PG) senza alcun contraddittorio al mero fine di garantire la funzionalità del nuovo sistema processuale penale in chiave efficientista.

Il tema delle impugnazioni Altro intervento di dubbio pregio che contraddistingue la Riforma Cartabia riguarda il tema delle impugnazioni: la disciplina dell’appello in primis, stante la novella introdotta dell’art. 581 c.p.p., e a stretto giro estesa, per via giurisprudenziale, anche al ricorso per cassazione (art. 606 c.p.p.).

Il criterio di specificità codificato dall’art. 581 c.p.p. nuova formulazione, diciamo pure in continuità con la Riforma Orlando del 2017, ha inteso deflazionare in modo drastico i giudizi di appello, introducendo un freno agli atti di gravame non specifici, privi di censure puntuali e critiche esplicite, rispetto alla motivazione della sentenza di primo grado prevedendo espressamente la sanzione processuale dell’inammissibilità.

In sintesi, la tagliola dell’inammissibilità è prevista ogni qualvolta il difensore di turno ometta di misurarsi con le ragioni, di fatto e di diritto, esposte dal Giudice nella parte motiva della sentenza senza contestualizzare le critiche per “capi” e per “punti” – i motivi di gravame – al contenuto delle decisioni impugnata.

Per ragioni sempre di matrice efficientista il legislatore ha di fatto introdotto un doppio scrutinio in sede di appello aggiungendo un vaglio di ammissibilità preliminare avente ad oggetto la ragionevole probabilità di accoglimento dell’impugnazione o, nella migliore delle ipotesi, la correttezza strutturale dei motivi di appello enunciati dalla difesa per confutare la valutazione del giudice redattore.

In tema di impugnazioni il legislatore intende conseguire in modo ancora più performante la deflazione dei numeri dei processi penali con altri due interventi chirurgici operati sull’art. 581 c.p.p. c.1 bis e 1 ter, prescrivendo sempre la sanzione dell’inammissibilità dell’atto di impugnazione, nei casi in cui il difensore non sia munito di mandato specifico (conferito dopo l’emissione della sentenza da impugnare) o l’atto di appello non contenga la dichiarazione espressa di elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.

Poiché la medesima sanzione è estesa al caso di ricorso per cassazione, non sottoscritto da difensore iscritto all’albo speciale per patrocinare innanzi alle giurisdizioni superiori (art. 613 c.p.p.), pare del tutto evidente che la previsione di un mandato autonomo per impugnare e la mancata previsione, della possibilità di sottoscrivere in proprio i motivi di ricorso in cassazione per il ricorrente condannato, rischia di compromettere l’esercizio del diritto di difesa degli incolpati proprio più deboli economicamente, i quali dovranno – loro malgrado – rinunciare a difendersi con buona pace “dell’asserito rafforzamento delle garanzie difensive” .

Da ultimo l’efficienza del sistema si completa con la cartolarizzazione ordinaria dei giudizi di impugnazione e con la previsione dell’istituto, inedito per il processo penale italiano fino alla Riforma Bonafede, della c.d. prescrizione processuale (art. 344 bis c.p.p.) pur emendata al comma 5. La Riforma Cartabia conferma la previsione del diritto dell’accusato ad essere giudicato in un termine di durata ragionevole prefissato; la sua inosservanza, proroghe comprese, determina la sanzione della improcedibilità dell’azione penale in grado di appello e di legittimità.

Il diritto, assoluto ed intangibile, alla ragionevole durata del processo penale giustifica anche la previsione della sanzione dell’inutilizzabilità degli atti di indagine acquisiti oltre la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari e della disciplina della retrodatazione dell’iscrizione della notitia criminis nel registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.) per coerenza e, ancora, efficienza del sistema I punti di debolezza della Riforma, finora esposti, hanno determinato molti operatori del diritto e la comunità scientifica a dibattere già all’indomani della sua entrata in vigore (1.01.2023) della c.d. RIFORMA della “Riforma Cartabia” atteso che il procedimento penale attiene alla cognizione del reato, la sua conoscenza e il suo accertamento sono questioni molto complesse, spesso proprio nei casi più gravi non suscettibili di essere incasellati in una logica numerica, statistica, meccanica o automatizzata; per questa ragione è funzionale all’esercizio dell’azione penale e della giurisdizione un tasso di discrezionalità necessaria, irrinunciabile, che contemperi l’esigenza dell’accertamento con quella della repressione e non sacrifichi la ricerca della verità, come la tutela dei diritti violati o offesi in nome della logica dell’efficientismo.

L’auspicio è che per il futuro l’intelligenza artificiale sia presto a servizio degli operatori del diritto per coadiuvarli a rendere si performante il sistema giustizia, ma non a scapito delle esigenze difensive e delle persone accusate e – soprattutto – delle persone offese e dei loro prossimi congiunti. Il rafforzamento delle garanzie difensive non può che essere proporzionato alla gravità ed alla qualità degli interessi e diritti contrapposti da bilanciare nell’esercizio dell’azione penale e della funzione giurisdizionale. I difensori sono i paladini dei diritti e le sentinelle del corretto esercizio della funzione giurisdizionale; per questo devono da una parte formarsi adeguatamente e avere consapevolezza del proprio ruolo e della loro funzione sociale, dall’altra favorire la conoscenza dei problemi o delle criticità del nuovo “sistema giustizia penale”, contribuendo ad individuare le soluzioni o le alternative possibili.

L’ignoranza è il primo ostacolo che si incontra nella tutela dei diritti degli assistiti e della risoluzione dei problemi.